La Roma di fine I sec. a.C. trabocca di personaggi eclettici, distinti per le variegate occupazioni e per i diversi stili di vita, fattori spesso legati al ceto d’appartenenza o alla rilevanza politica che ne sancivano la posizione sociale all’interno del sistema dell’Urbe stessa. Sotto il governo di Ottaviano Augusto venne ripristinato il Mos Maiorum[1], codice morale che decretava il valore civile e le virtù del cives romanus, il quale si doveva dedicare in toto a una vita priva di eccessi per servire al meglio Roma e chi la rese grande (importanza delle tradizioni della gens e degli avi fondatori).
Tuttavia, alla frugalitas augustea, si contrapposero elementi di lusso sfrenato e di gusti legati all’eccesso. La figura di Marco Gavio Apicio (I sec. a.C.- I sec. d.C.), noto esperto culinario e gastronomo, incarna l’effettiva rappresentazione del ricco patrizio romano, poco incline a rispettare le antiche virtù repubblicane (tanto apprezzate dai conservatori più radicali), propenso a far valere la propria posizione di rilievo attraverso banchetti sontuosi, vesti pregiate adornate da gemme e ricami, cibi esotici dalla remota provenienza e di complessa preparazione.
Delle origini di Apicio sappiamo ben poco; le uniche fonti risalgono al poeta Marziale, che testimoniò in un documento scritto di una cena tra il cuoco e Mecenate, consigliere di Augusto e protettore del circolo dei letterati del princeps. Questa testimonianza conferma la notevole caratura sociale di Apicio, così come la sua predisposizione ad atti libidinosi (come l’abbandono a pratiche sessuali con Seiano, giovane che si prostituiva per denaro) che lo fecero passare alla storia come exemplum paupertatis contrarium[2], venendo costantemente screditato dalla nobiltà conservatrice e, successivamente, dalla concezione di vita modesta della dottrina cristiana.
A differenza dello sfortunato poeta Publio Ovidio Nasone, esiliato da Ottaviano anche a causa dell’eccesso dei costumi e della totale abnegazione ai valori di boni mores e frugalitas, Apicio ebbe buoni rapporti con la famiglia imperiale Giulio-Claudia; in particolare con l’imperatore Tiberio e il figlio Druso minore[3]. Persino l’ultimo atto della vita di Apicio venne tramandato come eccessivo: pare infatti che il cuoco, secondo dinamiche quasi tragicomiche, avesse deciso il proprio suicidio quando scoprì che il patrimonio personale, ridotto a “soli” dieci milioni di sesterzi, non gli avrebbe più consentito di eguagliare il tenore di ricchezza a cui era abituato.
Tra III e IV sec. d.C. venne compilata e pubblicata una raccolta di ricette a suo nome, il De re coquinaria: opera composta in dieci libri, frutto di una possibile rivisitazione dell’antico ricettario del cuoco. Corpus del testo costituito da frammenti disordinati, tuttavia fondamentali in quanto rappresenta la principale documentazione a noi pervenuta sulla cucina nell’Antica Roma.
I commensali disponevano di vivande provenienti dalle regioni più sconfinate dell’impero e le classi più elevate (Senatori e Cavalieri) indicevano ricchi banchetti per intrattenere e stupire i propri ospiti. L’apparato culinario variava per qualità e tipologie di pietanze: si passava dalla carne al pesce, dai legumi alla verdura, dalla frutta ai diversi condimenti. Proprio questi, costituiti da salse e spezie, costituivano la componente preponderante all’interno della cucina romana; si pensi al garum (o liquamen), la salsa a base di interiora di pesce azzurro, che tramite lavorazione, veniva salata e resa liquida. Alcuni storici lo interpretano come una colatura di acciughe “ante litteram”, ma dal sapore deciso e sicuramente sgradevole ai palati di noi moderni.
Il defrutum, condimento a base di mosto utilizzato per addolcire innumerevoli piatti e per allungare il vino: si otteneva attraverso un lungo processo di bollitura in apposite caldaie, nelle quali veniva versato il succo d’uva, sempre più rappreso in seguito alla cottura e evaporazione del liquido stesso. Secondo alcune fonti, veniva persino adoperato come maschera cosmetica per il viso dalle matrone.
Le carni venivano intinte nel miele o nell’aceto, a seconda delle preferenze dei commensali; normalmente i palati più fini prediligevano la delicatezza di gusti dolci.
I legionari, invece, consumavano pietanze dal sapore più deciso, come la posca, bevanda a base di aceto utilizzata per prevenire infezioni intestinali e per sanare ferite da taglio sui corpi dei soldati. Il sale era un elemento molto pregiato, utile a conferire maggior sapore ai cibi e alla conservazione degli stessi, in particolar modo durante le lunghe tratte commerciali e in seguito allo smistamento delle merci alimentari negli appositi magazzini.
Ulteriore vivanda degna di menzione è il cosiddetto “tuorlo pepato”, uovo di pavone bollito ad alte temperature, condito da pepe e altre spezie saporite. Alcune invenzioni culinarie presenti nelle ricette di Apicio, vengono riproposte in opere cronologicamente successive: nel Satyricon[4], Petronio si diverte a enfatizzare i tentativi compiuti da Trimalcione per accalappiare la curiosità ma soprattutto l’invidia degli ospiti, i quali trovandosi innanzi a cibi esotici dall’originale preparazione, osservano e assaggiano con stupore le portate proposte dalla cucina del liberto; l’esorbitante quantità di cibo metteva in difficoltà i poveri servitori di Trimalcione, costantemente rimproverati dal padrone in un quadretto quasi grottesco. L’uomo sembra essersi facilmente dimenticato delle proprie umili origini, sentendosi oramai parte integrante di quella ristretta componente élitaria della società che ad ogni costo voleva differenziarsi da una plebe troppo noiosa, che non riusciva a evadere dai canoni della monotonia quotidiana.
Tramite l’analisi dei documenti è possibile cercare di ricostruire le tradizioni di una cucina in continua evoluzione, frutto di conquiste e annessioni territoriali di province aventi molteplici modelli culinari, ma riproposti attraverso una concezione alimentare prettamente romana.
Per approfondire:
M. G. Apicio, Antica cucina romana, a cura di Federica Introna, Rusconi Libri, 2018.
M. G. De Rubeis, La cucina dell’antica Roma, I doni delle Muse, 2020.
M. Poma, Il cibo dell’impero, Mondadori, 2023.
[1]La componente conservatrice d’età repubblicana, rappresentata da esponenti di spicco come Catone il Censore, voleva riportare in auge gli antichi costumi della romanità più arcaica, per contrapporsi all’avvento della “grecizzazione” della società romana, portatrice di mollezza di spirito, nonché di eccessiva effeminatezza nella cura del corpo, elementi approvati dal circolo degli Scipione e dalla parte progressista della nobiltà (vedi Liber de agri cultura).
[2]Costante ricerca della ricchezza e ossessiva ostentazione di esibire il lusso in proprio possesso (Plinio il Vecchio lo definì come creatore ingegnoso di ogni raffinatezza).
[3]Secondo Plinio il Vecchio, il gastronomo avrebbe consigliato al figlio dell’imperatore di non mangiare le cymae (cime di cavolo), pietanza troppo povera e che poco si addiceva a un rampollo di famiglia imperiale.
[4]Romanzo in prosimetro attribuito a Petronio; frammento della cena di Trimalcione, liberto arricchito con gusti eccessivi e poco raffinati, come emblema di una realtà culinaria variegata che mirava a sorprendere i commensali del banchetto. Le portate di grande impatto scenografico non avevano l’obiettivo di soddisfare chi le assaggiava, ma di stupire attraverso i colori, le disposizioni degli elementi presenti sul vassoio e contorni che implementavano le dimensioni delle vivande.