Ai tempi della Serenissima, sulle imbarcazioni che partivano per le lunghe navigazioni verso Oriente, venivano imbarcati anche i gatti. Sì, proprio i micioni erano parte della ciurma e rappresentavano un’ottima difesa contro i ratti.
Nei secoli i traffici commerciali aumentarono e, con loro, anche il rischio di imbarcare involontariamente i famigerati roditori. Fin dalla grande epidemia di peste bubbonica, che colpì tutto il nord Italia tra il 1630 e il 1631 (la stessa descritta da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”), la trasmissione nell’uomo della terribile malattia, avveniva attraverso la puntura delle pulci dei ratti. Allora i veneziani cominciarono a selezionare razze di gatti molto combattive, per esempio importando dalla Siria i “soriani”. Ma il problema rimaneva, allora furono organizzate spedizioni in Dalmazia per riempire le navi di gatti da lasciare liberi tra calli e campielli.
Si narra che anche Vicenza fosse invasa dai sorci, così durante una pestilenza settecentesca si vide costretta a chiedere ai veneziani di correre in suo aiuto. La Dominante inviò migliaia di felini che però sparirono misteriosamente nel nulla e quando i veneziani ne chiesero la restituzione i vicentini risposero che non c’erano gatti a Vicenza: “e come mai no ghe xe gati a Vicensa? I gavè magnai?”
Sulle ragioni dell’attribuzione ai vicentini di mangiatori di gatti ci sono diverse dicerie, forse l’unico riferimento storico risale al 1509, quando Padova era attaccata dalle truppe della Lega di Cambrai, in guerra contro la Repubblica di Venezia. Tra gli aggressori c’erano i vicentini (tradizionali nemici dei sudditi dei Carraresi) e sarebbe a loro che i padovani mostrarono dalle mura in segno di disprezzo un gatto infilzato con una lancia. Ma lo sfottò non aveva origini culinarie, faceva invece riferimento alla macchina da guerra delle truppe imperiali conosciuta come “il gatto”.
Storie e leggende a parte, probabilmente il detto “vicentini magna gati” nasce da una facezia linguistica: in dialetto arcaico vicentino “hai mangiato” si pronunciava “gatu magnà” (oggi si dice “gheto magnà”) e i veneziani non vedevano l’ora di trovare motivi per canzonare i “campagnoli”, come dimostra la nota cantilena:
veneziani, gran Signori
padovani, gran dotori
vicentini, magna gati
veronesi, tuti mati
udinesi, castelani co i cognomi da Furlani
trevisani, pan e tripe
rovigòti, baco e pipe
i cremaschi fa coioni
i bresàn, tàia cantoni
ghe n’è ancora de più tristi… bergamaschi brusacristi!
E Belun? Póre Belun, te se proprio de nisun.
La verità è molto meno divertente: in tempi di guerre, lunghi assedi, fame e patimenti ci si arrangiava con quello che si trovava. Per esempio, dicono che a Venezia, sotto l’assedio del maresciallo Radetzky durante i moti risorgimentali del 1848, fossero praticamente spariti i piccioni.
Mangiare i gatti, sicuramente fino all’ultima guerra, purtroppo fu una pratica un po’ ovunque in Italia, tant’è che una circolare del Ministero dell’Interno all’inizio del 1943 vietava espressamente l’uccisione di gatti per scopi alimentari, al fine di evitare la proliferazione di topi.
Facciamo presto a inorridire, noi che non sappiamo neppure più il senso della parola “fame”, noi che al primo “languorino” apriamo il frigorifero.
Ce lo spiega Mario Rigoni Stern, sulle pagine de “Il Sergente nella Neve”, cosa è la Signora Fame:
“Per Natale volevo mangiarmi un gatto e farmi con la pelle un berretto.
Avevo teso anche una trappola ma erano furbi e non si lasciavano prendere.
Avrei potuto ammazzarne qualcuno con il moschetto ma ci penso solo adesso ed è tardi. Si vede proprio che ero intestardito di volerlo prendere con la trappola, e così non ho mangiato polenta e gatto e non mi sono fatto il berretto con il pelo.”
Sono parole scritte proprio da un vicentino di Asiago, accenti drammatici che fanno riflettere, ma che non devono togliere il sorriso bonario, lo sfottò di un modo di dire antico sugli abitanti dei Berici. In fin dei conti perfino su Wikipedia, alla voce “cucina vicentina” esiste l’inequivocabile riferimento gastronomico: “… un vecchio detto, che testimonia la povertà del territorio (forse il più povero tra tutte le città della Serenissima) e della sua gente, chiama i vicentini magna gati.”
(Le immagini sono cartoline umoristiche dei primi del ‘900)
Il simposio dei 12 ghiotti, nato in un noto ristorante senese, come leggenda vuole, si prefigge lo scopo di celebrare la storia della cucina, non solo attraverso ricette, curiosità e aneddoti ma anche attraverso 12 incontri all’anno in cui si ritrovano discettando su vari argomenti.
Una delle regole del simposio è che nulla andrà sprecato.